Buon Martedì, spero abbiate passato una Buona Pasqua e una felice Pasquetta. 

Anche se la pace, purtroppo, non è arrivata anzi siamo al 55° giorno di guerra e si sono contati circa 40 mila morti tra russi e ucraini. Un numero che è destinato a salire ma che non fa dimenticare i nomi dei deceduti.

Ma oggi a Politicamente Scorretto voglio mettere al centro dell’attenzione la svendita del sistema Italia a Russi, Cinesi, Francesi Inglesi, Egiziani ecc. ma la lista è molta più lunga.

Così come negli ultimi 20 anni si è allungata la lista di aziende italiane acquisite da holding finanziarie estere o multinazionali straniere. 

Nessun settore è stato risparmiato, dal lusso al food, dalle comunicazioni all’energia, dalla sicurezza alle aziende strategiche.

Le aziende italiane, simbolo di qualità ed eccellenza nel mondo, sono diventate per le multinazionali straniere come i prodotti del supermercato in offerta: sempre appetibili e sempre scontate. 

A partire dagli anni Duemila gruppi industriali di Cina e Hong Kong hanno investito, per esempio, in Italia una cifra intorno ai 16,2 miliardi di euro.

Il nostro Belpaese è terzo nella classifica, come meta di investimenti non solo per qualità ma anche per semplicità di manovra.

Certo le acquisizioni straniere sono un fenomeno acuito dalla globalizzazione.

Dalla globalizzazione e dalla manodopera che nei paesi asiatici o terzo mondo ha costi nettamente inferiori, rendendo difficile – quando non impossibile – una competizione ormai non più confinata all’interno del Vecchio continente ma divenuta planetaria.

Con una divisione tecnica: i fondi asiatici investono più sui settori consumer mentre gli europei su settori strategici e di ricerca.

Dando uno sguardo alle aziende italiane finite in mani straniere, non c’è settore che sia rimasto salvo dallo “shopping”: a partire dalla moda, con Fiorucci già comprato dai giapponesi, Krizia finito in Cina e Gucci, Bottega Veneta, Pomellato, Dodo, Brioni e Richard Ginori acquistati dal fondo francese Kering. 

La maison Valentino è invece nelle mani di Mayhoola Investments mentre Ferrè è passato in quelle del Paris Group di Dubai. Anche La Rinascente appartiene alla compagnia thailandese Central Group of Companies. Mentre Versace è stato venduto allo stilista americano Michael Kors. 

L’altro grande colosso francese della moda, LVMH, è diventato proprietario di Loro Piana, Fendi, Emilio Pucci e Bulgari.

Anche nel food i marchi Galbani, Locatelli, Invernizzi e Cademartori sono della francese Lactalis, mentre gli oli Cirio-Bertolli-De Rica sono passati alla Unilever, che poi li ha ceduti alla spagnola Deoleo. 

E se i salumi Fiorucci sono spagnoli, Grom è olandese ed i cioccolatini Pernigotti attualmente sono in Turchia, mentre la Birra Peroni è stata fagocitata dal colosso giapponese Asahi.

Nel campo dell’industria, Italcementi è stata acquisita da HeidelbergCement, Pirelli ha traslocato in Cina, Magneti Marelli è passata ai giapponesi di Calsonic Kansei. 

Nell’industria dei treni, infine, il made in Italy non esiste più: la Fiat Ferroviaria è controllata da Alstom e AnsaldoBreda è stata venduta alla giapponese Hitachi da parte di Leonardo. 

Per Lamborghini, invece, la nuova casa è in Germania.

In questi anni a cavallo della pandemia le relazioni economiche internazionali si sono fatte sempre più competitive, sia a livello globale che nel quadro più specifico delle varie alleanze geostrategiche. 

Per questo, paesi come l’Italia deve temere le conseguenze di lungo periodo delle scalate straniere all’economia nazionale, dell’acquisizione di componenti pregiate del nostro sistema economico, forti in termini di ricerca e tecnologia e di risorse difficilmente sostituibili, da parte di attori stranieri.

Il timore è particolarmente sentito in un sistema-Paese in cui aziende spesso depositarie di brevetti o potenzialità strategiche soffrono di sottocapitalizzazione o debolezza finanziaria o di insicurezza delle politiche industriali. 

Dal 2010 al 2019 il valore delle acquisizioni di industrie italiane dall’estero (40 miliardi), infatti è di gran lunga superiore alla somma delle acquisizioni di italiani all’estero (16,6 miliardi) e di italiani fra italiani (10,4 miliardi).

Tra le ultime acquisizioni estere va ricordato il marchio Sergio Rossi, finito in mano al gruppo cinese Fosun,mentre INWIT la società che gestisce quasi tutte le torri italiane di trasmissione per la telefonia mobile in questi giorni ha cambiato mano. Uscita la TIM entra il fondo francese Ardian che deterrà la maggioranza assoluta delle antenne.

I giganti stanno arrivando e noi subiamo. 

Un passo alla volta stanno ridisegnando finanche la mappa delle farmacie italiane. Il fischio d’inizio della liberalizzazione del settore era arrivato nel 2017 con l’apertura  del capitale dei singoli negozi. Ed allora liberi tutti.

Il green italiano ha attirato i miliardi dei grandi investitori esteri, in particolare francesi. Adesso ce ne sono in fila altrettanti per entrare nel capitale delle eccellenze verdi italiane ci sono anche assicurazioni estere e i cosiddetti “fondi istituzionali” pronti a sottoscrivere miliardi con le tante IPO di settore attese nel 2022.

Il green deal italiano attira investitori perché l’Italia è il Paese del sole e dove i prezzi dell’elettricità sono tra i più alti.


Ed allora

Fornire al decisore un pulsante di stop o poteri di condizionamento per transazioni ritenute a rischio è uno strumento valido al sistema-Paese in una fase in cui la competizione globale fa avvertire la necessità di sviluppare una “geopolitica della protezione”, riscoprendo il dettame economico già caro ad Adam Smith: non esiste prosperità senza sicurezza. 

Una lezione ben chiara a Stati Uniti, Cina, Regno Unito, Francia, Germania.

È dunque fondamentale che l’Italia inizi a supportare le aziende strategiche “dalla culla alla tomba”, e non soltanto in una fase quando le autorità la definiscono strategica e la difendono da scalate ostili provenienti dall’estero. 

Per salvaguardare la propria eccellenza economica il governo dovrebbe sì respingere l’assalto straniero ma, allo stesso tempo, assicurare all’imprenditore o al fondatore dell’impresa risorse e tutele altrettanto adeguate pur restando una azienda libera ed indipendente.

Soltanto così l’Italia potrà veramente iniziare a competere con le grandi potenze economiche e industriali dell’Europa (e non solo).

Bisogna dunque pensare al golden power come ad una norma abilitante che permettere allo Stato di capire dove presidiare maggiormente l’economia per fare una politica industriale volta a unire processi di difesa dell’interesse nazionale e a legittime tutele dell’impresa privata. 

Ora più che mai appare chiaro che la politica industriale sia da pensare come una questione sistemica.

Vorrei terminare questa puntata di Politicamente Scorretto chiedendo a tutti voi di esprimervi sulla vendita di aziende italiane a gruppi stranieri. Parlo di aziende che portano alto il nome dell’Italia e che sono strategiche per il nostro futuro.

La mia email è: scrivimi@giuseppeesposito.it

Ci sentiamo martedì prossimo alle 11

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